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Combatte l’umidità e i cattivi odori nelle valige (ne bastano due o tre zollette), aiuta a cicatrizzare le piccole ferite ed è un ottimo conservante per gelatine e marmellate.
I medici, nel Medioevo, lo prescrivevano contro tosse o disturbi di stomaco, nelle scene di lotta, al cinema, si usa per costruire finestre o bottiglie (che fanno meno male di quelle in vetro).
Aggiunto all’acqua, fa durare più a lungo i fiori in vaso, le donne, una volta, lo preferivano all’amido per irrigidire le sottovesti.
Ma lo zucchero, di cui gli scienziati hanno trovato abbondanti tracce anche nello spazio, è prima di tutto il carburante del nostro organismo: senza zucchero, nelle sue varie forme, i muscoli s’incepperebbero e anche il cervello, in pochi giorni, smetterebbe di funzionare.
Presente in moltissimi cibi e bevande (persino nelle patatine fritte dei fast food, secondo il sociologo Usa George Ritzer), lo zucchero da cucina, detto anche saccarosio, fornisce circa il 7% delle calorie bruciate ogni giorno sul pianeta. Il mercato e il bisogno innato di alimenti dolci, che nell’antichità era prevalentemente assolto dal miele, ne hanno fatto una delle merci più importanti per le economie in via di sviluppo: solo fra Brasile e Messico, dà lavoro a più di un milione di persone, anche se la maggior parte di esse è sotto pagata. Considerato in passato cibo esclusivo di re e potenti (la casa reale inglese, nel 1288, ne consumò più di 2.800 kg), metafora di felicità e bel vivere (per Leopardi era “un zucchero” la vita degli altri, a Mary Poppins ne bastava un po’ per far andare giù la pillola), il saccarosio è stato in più occasioni protagonista della storia politica e sociale dell’Occidente (e non solo). La canna da zucchero, la pianta che per molti anni è stata l’unica fonte di saccarosio, venne addomesticata in Nuova Guinea già nel 6.000 a.C. e, più tardi, si diffuse nelle Filippine, in India e in altre regioni asiatiche.
È proprio un testo indiano del 400-350 a.C. a citare, per la prima volta, una sostanza dolce e (probabilmente) cristallina, estratta dalla canna e mescolata a bevande o budini di riso.
Autori greci e romani definirono questa sostanza sakcharon o saccharum, dal sanscrito sarkara. Portato in Europa dagli arabi, lo zucchero arrivò a Venezia intorno al 996, ma il clima, che non era quello tropicale, ostacolò la diffusione della canna nel bacino mediterraneo: la merce era così rara che, nel XV secolo, 100 tonnellate di zucchero (venduto in pani, molto più scuro e aromatico di quello attuale) vennero pagate al corrispettivo di oltre un milione di euro.
La svolta fu segnata dalla scoperta dell’America.
Cristoforo Colombo, nel 1493, introdusse la canna nel Nuovo Mondo e britannici, olandesi, spagnoli e francesi ne capirono subito le potenzialità: servendosi di schiavi africani, insediarono le prime piantagioni nelle proprie colonie e il saccarosio, per le famiglie europee,cominciò a diventare un’abitudine: nel 1700, il valore dello zucchero importato in Inghilterra superò quello del tabacco (di quasi il doppio).
Gradualmente, da prodotto medicinale o “spezia” per poche persone, il “miele senz’api” divenne un cibo di massa, quasi indispensabile, anche se i costi non sempre erano alla portata di tutti. Nel 1747, il tedesco Andreas Marggraf scoprì che dalla barbabietola, “versatile pianta da giardino” (anche alle nostre latitudini), si potevano ricavare cristalli dolci analoghi a quelli tradizionali. Fu una rivoluzione e quando, il secolo dopo, furono interrotte le linee commerciali con la Francia, Napoleone, privato dello zucchero di canna, investì tutto sulla barbabietola e ne ordinò la coltivazione di migliaia di ettari. In pochi anni vennero costruite una quarantina di fabbriche e, alla riapertura dei porti continentali, la strada era ormai segnata.
Oggi, in circa 130 Paesi del mondo (i primi sono l’India, il Brasile e la Ue), si producono oltre 140 milioni di tonnellate di saccarosio all’anno (contro i 70 milioni del 1968 e i 120 milioni del 1995): il 65-70% è di canna, il 30% è di barbabietola.
Altri tipi di zucchero (come quelli d’acero, di frutta o di cereali) hanno un mercato marginale. L’energia fornita dal saccarosio a livello globale è di almeno 45 mila miliardi di kcal al mese, più o meno quello che 22 giocatori e un arbitro spenderebbero in un miliardo di partite di calcio.
Il consumo annuo, in media, è di 21,5 kg a persona e in Europa è addirittura superiore ai 30 (con punte di 45 in Belgio e Irlanda).
In Italia, dov’è poco pubblicizzato e collocato negli angoli meno visibili dei supermercati (il 70% degli acquirenti, secondo uno studio, non ha idea di quanto costi), se ne mangiano 25,5 chili a testa, più della metà contenuti in cibi o bevande preconfezionate.
Il valore mondiale della produzione si aggira fra i 30 e i 32 miliardi di
dollari, di cui 9 conseguenti agli scambi fra Stati: ma gli importi sono
condizionati dalla volatilità dei prezzi e, soprattutto, dalle misure
protezionistiche di molti Governi. La politica della Ue, che nella stagione in
corso dovrebbe riuscire a mettere sul mercato poco meno di 20 milioni di
tonnellate di saccarosio (tutte, naturalmente, da barbabietola), è stata
definita dal
Danish research institute of food economics
una delle più complesse e distorsive che siano mai state concepite.
Spiega un rapporto della Rete Lilliput e dell’organizzazione
Tradewatch: “L’Unione europea
ha creato un mercato interno in base al
quale definisce i livelli di produzione, ne garantisce un prezzo di lusso,
esclude la competizione e finanzia l’esportazione delle eccedenze a spese dei
contribuenti e a favore delle imprese. Il resto del mondo, escluso da questo
fortino, subisce gli effetti negativi della sovrapproduzione comunitaria, che
viene venduta sottocosto e che, in condizioni di parità (cioè senza sussidi) non
esisterebbe e andrebbe a beneficio dei Paesi del Sud che coltivano la canna da
zucchero”.
Nel luglio 2004, dopo aver riconosciuto che la coltivazione della barbabietola
(meno competitiva della canna) “è potuta sopravvivere solo grazie a una tutela
tariffaria incessantemente rafforzata”, la Commissione ha annunciato di
voler riformare la politica del comparto, tagliando i benefici. La reazione di
aziende
agricole e zuccherifici, la cui lobby si è andata indebolendo negli anni, non si
è fatta aspettare: “Se Francia e Germania potranno limitarsi a ridimensionare il
settore” dice Giovanni Sauro Bononi, vice presidente del Consorzio nazionale
bieticoltori “in aree meno vocate e con costi di produzione più elevati, come
l’Italia, la bieticoltura rischia letteralmente di scomparire”. Secondo la Banca
mondiale, una maggiore liberalizzazione, in Europa come negli Usa, assicurerebbe
alle economie in via di sviluppo quasi un milione di occupati in più, anche se a
fronte di una riduzione di qualche migliaio di posti in Occidente. Il
saccarosio, che è uno dei pochi alimenti senza scadenza (tutt’al più può
impregnarsi di umidità), è contenuto in molte specie vegetali: ma la canna da
zucchero
e la barbabietola
sono quelle che hanno dato e continuano a dare i rendimenti migliori. I prodotti
ricavati dalle due piante, dopo essere stati raffinati, sono identici. Ciò che
cambia è il metodo di estrazione: Nel caso della canna i fusti vengono tritati e
spremuti e il liquido che si ottiene è riscaldato, filtrato e raffreddato.
Durante il processo, accanto ai cristalli, si forma la melassa, una soluzione
appiccicosa contenente sali minerali e che dà un colore scuro allo zucchero. Per
separare i cristalli dallo sciroppo, la soluzione viene centrifugata, quindi lo
zucchero viene essiccato. A quel punto può rimanere grezzo (e dunque
ambrato, come quello che si trova nei bar) oppure essere raffinato (e dunque
sbiancato e spogliato dai sali minerali).
Diversamente, la barbabietola non viene spremuta, ma lavata, affettata e immersa
in grandi contenitori di acqua calda, la quale, poco a poco, si arricchisce di
saccarosio e melassa. Quello che succede poi, è simile al procedimento descritto
per la canna, con la differenza che lo zucchero di barbabietola deve essere
raffinato, perché il gusto della melassa è decisamente poco gradevole. Una
tonnellata di barbabietole genera fino a 140 kg di saccarosio e 38 kg di
melassa. Dalla stessa quantità di canne si ricavano 120 kg di zucchero e 30 kg
di melassa (che serve a fare il rhum ed è impiegata, in certi Paesi, come
dolcificante). Confezionato in cartoni, tubi, bustine o
zollette
(queste
ultime realizzate umidificando e comprimendo i cristalli in appositi stampi), lo
zucchero da cucina è detto semolato, perché simile alla semola che si ha dalla
macinazione del grano duro.
Le bustine, a seconda delle aree dove vengono vendute, possono avere un diverso contenuto di saccarosio: Negli Stati Uniti, dove l’obesità è un problema importante, pesano fra i 2 e i 3 grammi e misurano 3x2 cm., in Italia fra i 4 e 5 (3x5 cm.), in Spagna 7 (5x7 cm.), nei Paesi nordici arrivano a 10 gr. (12x7 cm.). Di solito sono stampate con una tecnica chiamata FLEXOGRAFICA. La quasi totalità delle bustine è prodotta con incarti formati da carta e polietilene. L'involucro può essere di vari tipi (la differenza da questi è data solo da cause economiche): La carta più comune viene chiamata KBM (kraft bianco monolucido).Una carta più pregiata (perciò meno usata) è la SMALTATA MONOPATINATA LUCIDA che è abbastanza forte e molto lucida.
Un tipo d'incarto che di solito non si utilizza quindi rarissimo da trovare è costituito da carta con verniciatura UV che la rende lucidissima e brillante.
Per far conoscere la storia dello zucchero di barbabietola o di canna sono stati creati musei in Italia e all'estero:
in Belgio il Tienen
e il Tulln,
in Italia la SugarHouse dei fratelli Pero in Germania
http://www.dtmb.de/Zucker-Museum/englisch.htm
alle Hawaii
http://www.sugarmuseum.com/alle Barbados
http://www.barbados.org/sugarmus.htm
in Danimarca http://www.sockermuseum.com/
Attorno allo zucchero è nata anche una simpatica collezione, raccogliere gli incarti con o senza zucchero, in Italia vi è un' associazioni che raggruppa un consistente numero di collezionisti di tutte le età e professioni. Ma esistono associazioni anche in Olanda, Portogallo, Francia, Spagna, Germania.La bustina nel corso degli anni si è trasformata non è più solo pubblicitaria ma anche veicolo di comunicazione, di informazione di cultura,di sport, ecco alcune immagini:
bustina per la raccolta differenziata
i calciatori preferiti
le monete dell'Euro
la campagna di sensibilizzazione
per il rispetto degli animali e
contro il fumo
Tradizionale, a velo, liquido o in granella (come quello che guarnisce alcune merendine preconfezionate), lo zucchero, in passato, è stato spesso associato all’insorgere di obesità, diabete o malattie cardiovascolari: il medico francese Paul Carton (1875-1947) lo definì addirittura un “alimento assassino”, insieme alla carne e all’alcol.
L’Istituto nazionale di nutrizione (Inran), nel 2003, ha sottolineato come queste e altre ipotesi siano “state in seguito smentite, sebbene rimanga valida la considerazione che un consumo troppo elevato di zuccheri può facilitare la comparsa di tali disturbi”.
Le carie ne sono un esempio: il saccarosio è un nemico dei denti, ma le patatine fritte, l’uva passa, le banane, e soprattutto una cattiva pulizia, lo sono di più. “Sostenere che il saccarosio fa male” afferma Giorgio Calabrese, docente di nutrizione umana all’Università Cattolica
di Piacenza “non è corretto, ma occorre non superare, in termini energetici, quelle che sono le esigenze dell’organismo. Tre o quattro tazzine di tè o caffè al giorno, con un cucchiaino piccolo di zucchero, non creano problemi. Andare oltre potrebbe essere superfluo e, a volte, anche dannoso”. L’Inran, riferendosi agli zuccheri semplici, indica la soglia dei 56-84 grammi quotidiani, ma raccomanda di comprendervi tutto: frutta, latte, brioche, caramelle, cioccolata, biscotti, aranciata. E non solo.
Lo zucchero, infatti, trova sempre più spesso anche impieghi non collegati alla sua dolcezza: il saccarosio contenuto in molti cibi pronti che non sono dolci (dalle carni impanate al pollame) è una causa importante dell’aumento dei consumi di zucchero, fa notare l’antropologa Sidney Mintz, che alla storia dello zucchero ha dedicato un libro. “Quando gli zuccheri sono usati in cibi cotti al forno senza lievito” continua la studiosa “ci viene detto che la loro consistenza diventa più delicata; lo zucchero inibisce l’avvizzimento del pane, stabilizza il contenuto chimico del sale, mitiga l’acidità del ketchup, fornisce corpo alle bevande gassate. In tutti questi usi la dolcezza dello zucchero è un elemento irrilevante: molti confezionatori di cibi preferirebbero avere una sostanza chimica con tutte le qualità del saccarosio ma senza le calorie del saccarosio e, in certi casi, anche senza la dolcezza”. Sullo zucchero punta anche l’industria non alimentare.
L’India e il Brasile stanno investendo somme rilevanti sullo sviluppo del bioetanolo, un carburante che si ottiene, tramite fermentazione, dalla canna o dalla barbabietola. Meno inquinante dei derivati del petrolio, il bioetanolo può essere aggiunto fino al 30% alla benzina tradizionale (senza dover modificare il motore), oppure, con qualche accorgimento tecnico, essere usato da solo (cosa che già accade in Sud America) E se, ancora dall’India, sono in arrivo le plastiche zuccherate (biodegradabili, una leccornia per i batteri del suolo), al Pentagono stanno tentando di addestrare uno sciame di api a rinvenire sostanze esplosive. La ricompensa, naturalmente, è un po’ di zucchero. Le prime bustine di zucchero risalgono al 1909: l’invenzione, attribuita al francese Ernest Picard, doveva servire a proteggere il prodotto, “per unità differenti, dalle mosche e dai microbi della polvere”. L’involucro, a differenza di oggi, non era sigillato, ma veniva riempito dai commercianti al momento della vendita. Nei ristoranti le bustine apparvero nel 1917, però non in Italia, dove occorrerà attendere la fine della seconda guerra mondiale. Nel 1930, in Germania, si cominciò a confezionare lo zucchero in piccole piramidi di cartone: per versarlo occorreva strapparne la cima. Negli anni, le bustine sono diventate oggetti da collezione: ci sono bustine che riproducono bandiere e cartine geografiche, armature medioevali e giochi. Una serie completa può valere fino a qualche centinaio di euro. La fotografia più celebre, scattata a pochi giorni dalla scoperta, lo ritrae con una zuccheriera in mano e un’immagine della Via Lattea sullo sfondo. Jan Hollis, scienziato della Nasa, è l’uomo che nel 2000 ha reso meno amaro lo spazio e individuato, a circa 26 mila anni luce dalla Terra, tracce di zucchero ghiacciato nell’area più interna di una nube interstellare, la Sagittarius B2. L’osservazione, confermata lo scorso anno dal radiotelescopio di Green Bank (Virginia, Usa), rafforza l’ipotesi secondo cui proprio dallo spazio sarebbero giunte le molecole e gli elementi chimici che hanno dato origine alla vita sul nostro pianeta. Se così fosse, sostengono gli astronomi, forme biologiche più o meno complesse dovrebbero essere un fenomeno abbastanza comune nell’universo. La scoperta di Hollis è stata solo la prima di una serie di dolci sorprese: nel dicembre 2001, infatti, un altro scienziato dell’Agenzia statunitense, George Cooper, ha trovato sostanze zuccherine anche in due meteoriti cadute sull’Australia.
Quello che comunemente chiamiamo zucchero, e che versiamo nel caffè o nella spremuta d’arancio, è dal punto di vista chimico e alimentare un composto organico della famiglia dei carboidrati. Formati da carbonio, idrogeno e ossigeno, i carboidrati (chiamati anche glucidi) hanno una funzione essenzialmente energetica. A seconda della struttura, si dividono in monosaccaridi, disaccaridi e polisaccaridi. I primi rappresentano l’unità di base dei carboidrati: sono monosaccaridi il fruttosio (lo zucchero della frutta) e il glucosio, che è lo zucchero in cui uomini e animali convertono i carboidrati per poterli utilizzare. I disaccaridi derivano dall’unione di due molecole di monosaccaridi: il lattosio (lo zucchero del latte) e il saccarosio, che è lo zucchero da cucina (formato da una molecola di fruttosio e una di glucosio) ne sono gli esempi principali. L’ultima categoria è quella dei polisaccaridi (anch’essi, a volte, definiti impropriamente zuccheri), presenti nelle patate, nei legumi e nei farinacei (come pasta o pane).
Dei polisaccaridi fa parte il glicogeno, che viene prodotto dall’organismo dagli zuccheri semplici in eccesso: immagazzinato nei muscoli e nel fegato, può essere trasformato in glucosio in caso di necessità. Tutti i carboidrati forniscono un’energia pari a 4 kcal/grammo: da essi dovrebbe derivare circa il 60% dell’apporto calorico quotidiano. Gli zuccheri, ovvero i monosaccaridi e i disaccaridi, non dovrebbero superare il 10-15% del totale.
Con lo sviluppo dell’industria chimica, negli ultimi decenni, sono entrati sul mercato prodotti sintetici alternativi agli zuccheri naturali.
Il loro elevato potere dolcificante (fino a 500 volte il saccarosio) ne rende possibile l’uso in quantità modestissime.
Utili per chi soffre di diabete, i dolcificanti sintetici sono spesso abusati dalle persone che vogliono perdere peso.
Ricercatori e medici, a più riprese, hanno segnalato il rischio che questi prodotti possano avere effetti collaterali, anche gravi (dalla cefalea al cancro).
I più noti sono il ciclamato, la saccarina e l’aspartame: i primi due hanno un contenuto calorico nullo, il terzo (che non si può cucinare) ha le stesse calorie dello zucchero, ma un potere dolcificante 200 volte superiore.